
Se la gavetta e il posto fisso non hanno senso: è la Gen Z, bellezza
Nel suo nuovo articolo, la contributor Federica Celeste descrive le differenze tra le generazioni al lavoro, soffermandosi sulla necessità di rovesciare completamente l'approccio avuto finora nelle organizzazioni se davvero si vuole fondare una cultura del lavoro degna di questo nome.
di Federica Celeste*

Immaginate un’azienda come un’orchestra. I boomer suonano a memoria. I Gen Z leggono le note da un tablet, ma cercano un motivo per suonarle. I Gen X dirigono. I Millennial traducono i silenzi in dashboard. A volte sinfonia. A volte rumore. Ma se il problema non fosse chi ha ragione, bensì chi ha il coraggio di riscrivere lo spartito?
Le nuove generazioni bussano alle porte delle aziende con aspettative e valori rinnovati. Generazione Z e Millennial non vogliono il “posto fisso”. Non inseguono benefit, ma benessere. Non puntano ad adattarsi, ma a non disintegrarsi. Cercano un impiego che abbia un senso. E se non lo trovano, non “fanno la gavetta”: se ne vanno. Chi resta aggrappato a metriche paternalistiche parla di disimpegno. Loro la considerano autodifesa emotiva.
In un mondo dove l’aria si respira a giorni alterni, le bollette sembrano cruciverba e i futuri pensionistici hanno la consistenza dell’aria fritta, la sostenibilità è una condizione di sopravvivenza. Non la trovi scritta nei bilanci ESG patinati o sulle magliette “green” fatte in Bangladesh, ma nei coworking di provincia, nei mercatini di scambio, nei curriculum con buchi vissuti come spazio di cura.
Questi giovani non stanno solo protestando. Stanno costruendo. Lavorano in cooperative sociali, in start-up etiche, in progetti di economia circolare. Scelgono capi usati, condividono mobili e libri, scambiano, creano micro-comunità solidali. Trasformano la fragilità in coesione. Il disagio in linguaggio. La precarietà in progettualità. Non più: “Dimostra quanto vali lavorando fino a crollare.” Ma: «Dimmi quanto mi rispetti, e forse ti do il mio talento».
In pratica, i nuovi arrivati non vogliono il vostro posto. Vogliono un motivo per restare. Sono agenti di cambiamento, portatori di una visione che intreccia carriera, benessere personale e responsabilità sociale. Creano comunità ad assetto variabile. Non vivono per lavorare, né lavorano per vivere. Ma lavorano per trasformare. Chi ha 25 anni non vuole “fare carriera”. Vuole durare. È una forma di resistenza psichica.
Il re è nudo. Lo confermano i dati. Ad esempio, uno studio di SEEK su oltre 3 mila lavoratori australiani ha mostrato che il 54% dei Millennial e il 40% della Gen Z rimpiange le proprie scelte professionali. Bassa retribuzione, scarsa conciliazione, senso di spaesamento. La frustrazione non si traduce però in passività: si trasforma in esodo selettivo. Due volte più Gen Z e Millennial, rispetto ai Baby Boomers, cercano aziende coerenti con i propri valori (Boston Consulting Group).
La fiducia, insomma, si sposta dai leader carismatici ai sistemi di welfare, dalle promesse alle pratiche.
Secondo Gartner, le aziende si stanno ristrutturando attorno a due esigenze non negoziabili: benessere mentale e tempo vivo. Il lavoro, oggi, non è più uno scambio tra ore e denaro. È un patto di mutuo rispetto. Non una crisi di engagement, ma una rivoluzione educativa.
Fragilità, precarietà, neurodivergenze, burnout non sono più patologie da rimuovere, ma materiale emotivo da condividere per valorizzare il benessere, la flessibilità e l’allineamento con valori etici. Senza chiasso, nelle periferie del potere.
Primo comandamento delle nuove generazioni? Sopravvivere all’ansia da prestazione collettiva.
Gen Z e Millennial cercano datori di lavoro che non solo parlino di responsabilità sociale, ma che la incarnino nelle loro pratiche quotidiane, secondo un coerente bilanciamento tra vita e lavoro, condizione cruciale nella scelta di un impiego.
Il disincanto dopo il secondo o terzo stage non è rassegnazione lungo una discesa nel pessimismo, bensì verso la comprensione, l’azione e la consapevolezza. E i dati parlano chiaro: le aziende multigenerazionali sono più innovative, prendono decisioni migliori e trattengono talenti più a lungo.
Attenzione, però: non basta mettere insieme ventenni e sessantenni e sperare che si parlino tra una call e una fetta di torta di compleanno aziendale.
Serve progettualità. Serve antropologia organizzativa. Serve una nuova grammatica.
Quindi, le aziende non sono più semplici erogatori di stipendi, ma partner attivi nel percorso di vita dei propri talenti, che smettono di barattare la produttività con la salute psicofisica. Questo significa investire in programmi di sviluppo per obiettivi, che responsabilizzino attraverso l’autoregolazione. E promuovere una cultura dell’inclusione e del rispetto adottando politiche che permettano una reale conciliazione tra esigenze professionali e personali.
Suggerimenti per sopravvivere all’invisibile ne abbiamo? Sì, eccoli qua.
Potremmo ad esempio pensare a:
– laboratori di senso condiviso. Non solo workshop, ma spazi reali (anche informali) dove si riflette su «perché facciamo ciò che facciamo?». I giovani portano la fame di impatto, i senior la memoria delle derive già viste. Insieme possono evitare errori e costruire visioni più mature.
– Co-design generazionale. Non chiediamo ai più giovani «cosa vuoi dalla tua carriera» e ai più anziani «come lo facevate voi». Chiediamo a entrambi di progettare insieme un nuovo onboarding, un nuovo welfare, un nuovo concetto di leadership per chi entra e chi esce.
– Scambio simbolico. Le nuove generazioni non vogliono solo competenze. Vogliono ereditare riferimenti, storie, vulnerabilità adulte. I senior non devono insegnare Excel, ma come si supera un fallimento, un licenziamento, un’inversione a U dopo la maternità.
– Dialoghi spiazzanti. Conversazioni brevi, inaspettate e interrotte, rituali intimi e sinceri. Una domanda sentita per essere visti. «Cosa hai imparato tardi?», «Cosa ti fa paura del lunedì mattina?», «Cosa ti salva quando non ce la fai più?».
È tempo che i leader smettano di fare gli invincibili e diventino testimoni. Chi guida le aziende non deve più convincere. Deve aprire la strada e poi fare un passo di lato. Perché il futuro, come diceva Edgar Morin, non si prevede ma si costruisce insieme. La Generazione Z sta riscrivendo il contratto sociale tra lavoro e vita. Non chiede garanzie. Chiede relazioni vere e ha molte referenze. Se anche le vostre imprese non ne possono più dell’elefante nella stanza, siamo pronti a firmarlo con le molte Palome stanche di fingere?

* Chi è l’autrice
Pedagogista delle organizzazioni e ingegnera gestionale, Federica Celeste è ricercatrice internazionale per il Politecnico di Milano. Oggi si occupa di formazione, benessere e gestione del cambiamento, dentro e fuori le aziende. Con un’anima divisa tra i numeri e le crepe psicologiche delle persone, le piace indagare il lato oscuro, ambiguo e tagliente delle storture lavorative. Appassionata di cinema e attivista per i diritti umani e animali, crede in un’idea di sostenibilità informata, anche se sa benissimo dove finiscono le buone intenzioni quando si scrive un post su LinkedIn.
Paloma nasce proprio dal suo bisogno di non smettere di metterci il cuore, mettendoci però il becco. Troppo giovane per essere vecchia, troppo vecchia per essere giovane, scrive e lavora da quell’età di mezzo in cui la lucidità è un superpotere. E anche una condanna.
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