Addio Great Resignation: in aumento gli italiani alla ricerca di maggiore stabilità

La ricerca dell'Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano mette in luce l'aumento del fenomeno "Great Detachment", ossia la quota di lavoratori italiani che si sentono delusi dalle chance offerte dal mercato del lavoro, complice anche il forte aumento dell'inflazione e la grande instabilità internazionale. Tra gli altri dati, il calo di chi fa chi effettivamente colloqui e l'aumento dell'uso dell'IA da parte dei lavoratori, ma nella stragrande maggioranza attraverso strumenti personali o gratuiti trovati online.

Nel 2025 si conferma un diffuso malessere tra i lavoratori italiani; solamente il 17% è pienamente ingaggiato e appena il 10% “sta bene” nelle tre dimensioni del lavoro: fisica, relazionale e mentale. Lo sostiene la ricerca dell’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano, presentata durante il convegno: “Tracciare la rotta del cambiamento: AI, nuove strategie e competenze per il futuro del lavoro”.

Tra gli altri dati, nel report si sottolinea anche la presenza di un 11% di dipendenti che ha cambiato impiego nell’ultimo anno e di ben un 30% che avrebbe intenzione di farlo entro i prossimi 18 mesi. Nella scelta di rimandare le dimissioni a favore di occasioni migliori, giocherebbe un ruolo importante l’aumento dell’inflazione, i timori di una recessione e l’instabilità economica in generale.

Le persone si sentirebbero insomma più bloccate e mentalmente disconnesse. E così, dopo i fenomeni di Great Resignation e Great Regret (il boom di dimissioni volontarie e relativi pentimenti), si affaccia il Great Detachment: lavoratori rassegnati all’insoddisfazione. La ricerca segnala infatti l’aumento dei quiet quitter, ossia le persone che restano al loro posto facendo il minimo indispensabile senza essere emotivamente coinvolte, che oggi sarebbero il 14% del totale, ben uno su sette. Tra coloro che vogliono cambiare impiego, sarebbe invece passata dal 58% al 52% la quota di chi sta effettivamente facendo colloqui. Crollata, infine, la quota di chi dopo aver cambiato lavoro si è pentito (dal 56% al 20%), anche se la maggior parte di chi ha cambiato lavoro continua a essere insoddisfatto.

Parallelamente, la ricerca dell’Osservatorio HR del Politecnico mette in luce anche l’esigenza di avere maggiore protezione e stabilità economica. Accanto alla ricerca di maggiore benessere, tornerebbero in pratica in primo piano motivazioni per certi aspetti più tradizionali, come le tutele del contratto, la retribuzione e i benefit. A conferma di questa tendenza, i servizi di wellbeing più richiesti sono l’assistenza sanitaria e i buoni pasto.

In questo contesto, si diffonde l’Intelligenza Artificiale, che in ambito HR potrebbe aumentare produttività, engagement e benessere. Il 45% delle aziende ha già investito in AI a supporto dei processi e il 60% a supporto della produttività individuale, ma le direzioni HR faticano ancora a guidare questa trasformazione e a comprendere come questi strumenti vengano utilizzati al proprio interno.

Nell’ultimo anno, infatti, un terzo dei lavoratori (il 32%) ha utilizzato l’AI nelle sue attività, basandosi però su soluzioni personali o gratuite reperite online, non su quelle fornite dalla loro azienda. E solo un’azienda su sette analizza l’impatto che i sistemi di AI possono avere sulle attività lavorative.

In media, chi usa strumenti AI al lavoro lo fa per il 20% delle sue attività, con un risparmio del 26% di tempo, equivalente a circa 30 minuti al giorno (che arrivano a 50 minuti per chi li utilizza quotidianamente). Il tempo “guadagnato” è usato soprattutto per svolgere le stesse attività con maggiore produttività (60%) o attività a maggior valore aggiunto (53%), ma anche attività extra-lavorative, impegni personali e familiari (44%).

Mariano Corso

In merito ai risultati della ricerca il responsabile scientifico dell’Osservatorio HR Innovation Practice, Mariano Corso, ha rimarcato la crescente frustrazione dei lavoratori italiani, che tornano a sentire urgente la necessità di avere retribuzioni adeguate al costo della vita, anche tenendo conto dell’instabilità del mercato del lavoro e della politica mondiale. In questo contesto, «la sfida principale per le Direzioni HR nel 2025 è lavorare sul senso e il significato del lavoro – ha aggiunto Corso – cercando di ovviare al senso di precarietà crescente. In un’epoca di grande trasformazione, tra ricambio generazionale e rivoluzione tecnologica, l’HR deve tracciare la rotta del cambiamento delle organizzazioni, che oggi passa da AI, nuove strategie e nuove competenze».

A sua volta, la Direttrice dell’Osservatorio HR Innovation Practice Martina Mauri ha rimarcato la fatica di molte aziende italiane nel comprendere appieno come l’intelligenza artificiale stia trasformando il modo di lavorare delle persone. A suo avviso, l’IA dovrebbe diventare «un vero e proprio strumento strategico per riprogettare il lavoro, automatizzando attività, creando efficienza, ripensando ruoli, competenze e modelli per liberare tempo ed energie, con minori carichi di lavoro e mansioni più attrattive e sostenibili».

La ricerca si sofferma anche su chi siano le persone che hanno cominciato ad utilizzare l’IA nell’ultimo. La media generale è del 32% con una punta del 43% tra white collar e addirittura il 54% nella GenZ.

La maggior parte dei lavoratori che la usa ha poi rilevato miglioramenti di performance e produttività (91%), l’86% miglioramenti della qualità del lavoro e sempre l’86% della capacità di apprendimento, mentre tra i rischi rilevati spicca il timore di indebolire le relazioni interpersonali (81%).

Il 32% dei lavoratori si dice infatti preoccupato dell’impatto sul proprio lavoro nei prossimi 3-5 anni, timori legati principalmente all’aumento della precarietà e all’impatto sulle competenze. In misura minoritaria, c’è chi intravede l’intento di limitare le assunzioni, ridurre l’organico o intensificare il controllo sui dipendenti.

Il 45% delle organizzazioni dichiara invece di aver investito in soluzioni di AI nell’ultimo anno a supporto dei processi HR. L’area su cui sono più diffusi questi strumenti è quella della Talent Attraction. Tra le soluzioni più adottate in questo processo spiccano per presenza i software per ottimizzare la comunicazione a potenziali candidati e/ o nella scrittura degli annunci, seguiti da strumenti per analizzare i CV ricevuti e classificarli in base alla posizione aperta.

Tra gli altri aspetti toccati dalla ricerca c’è la questione del talent shortage. Un’azienda su due prevede infatti una crescita di organico nel 2025, ma ben il 78% delle organizzazioni fatica ad assumere nuovo personale e, in circa la metà dei casi, la difficoltà è in crescita nell’ultimo anno. L’aspetto più critico è la difficoltà a trovare candidati con le competenze tecniche adeguate. Circa 1 nuova posizione su 4 riguarda professioni digitali: i profili più ricercati sono quelli specializzati in AI, Big Data Management & Data Analytics e Cybersecurity & Data Protection. Su tutti e tre è aumentata l’acquisizione tramite sviluppo interno a discapito della ricerca sul mercato esterno.

Desta maggiore interesse nelle aziende il modello della “Skill-based Organization”, in cui le scelte di crescita, allocazione delle responsabilità e organizzazione del lavoro sono basate sulle competenze delle persone, piuttosto che su fattori tradizionali come la posizione gerarchica, l’appartenenza funzionale o l’anzianità. Ebbene: nelle organizzazioni di questo tipo, oltre a una migliore valorizzazione delle competenze, la percentuale di lavoratori che “sta bene” sale dal 10% al 18% e gli intender e dimissionari passano dal 41% del campione al 36%. Ma il vero dato sorprendente è la percentuale di lavoratori pienamente coinvolti e motivati che balza dal 17% al 42%.

Per superare la fase critica l’82% delle organizzazioni italiane considera prioritario attrarre e trattenere le nuove generazioni. E’ proprio la GenZ ad incarnare la ricerca di maggiore benessere ed equilibrio tra vita lavorativa e privata. Per questa fetta di popolazione attiva, il lavoro è in altri termini solo una delle possibili fonti di auto-realizzazione e soddisfazione personale, una componente della vita che, pur importante, non può essere totalizzante. Inoltre, il salario non è più considerato un obiettivo e nemmeno come un mezzo per raggiungere uno status, ma come una risorsa necessaria. I servizi assistenziali e di welfare forniti dall’azienda, invece, vengono percepiti come essenziali per sopperire alle mancanze di uno Stato percepito meno presente e in grado di garantire sicurezza e protezione.

L’ultimo aspetto affrontato dalla ricerca dell’Osservatorio è la questione delle politiche DEI, alla luce della forte marcia indietro arrivata dagli Stati Uniti. La richiesta sembrerebbe chiara: le aziende che forniscono prodotti o servizi al governo statunitense dovrebbero adattarsi al cambio di rotta, anche se hanno sede in Europa. E tuttavia, ad oggi non sembrano esserci ancora effetti in Italia: la ricerca parla solo di un 3% delle aziende che dichiara di aver ridotto gli investimenti sulle tematiche DEI, a fronte di un 34% che ha in programma per il 2025 di lavorarci in continuità con lo scorso anno e il 23% che vuole ampliare le iniziative per affrontare il tema nel modo più esaustivo possibile.

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