Competenze relazionali: quando la scuola può fare la differenza
La docente Claudia Bassanini riflette nel suo articolo sul valore dell'empatia e delle altre competenze relazionali da allenare attraverso una specifica formazione. La scuola, osserva l'autrice, se ne potrebbe far carico se adeguatamente supportata dalle organizzazioni aziendali che già si sono avviate su questa strada.
di Claudia Bassanini*
Non c’è transizione ecologica senza un’ecologia delle relazioni, si diceva. E il futuro si gioca davvero in quella zona fragile dove gli esseri umani si incontrano. Ma cosa succede quando il benessere relazionale sul lavoro – fondamentale per produttività, motivazione e prevenzione del burnout – risulta impossibile perché mancano proprio le competenze di base per costruirlo?

Da tempo ormai si afferma a buona ragione che il benessere nelle relazioni sul luogo di lavoro giovi alla produzione. Riuscire a intrattenere rapporti significativi con i colleghi permette di raggiungere un benessere personale e di squadra che uniti riescono a creare motivazione, sviluppare affiliazione, prevenire il burnout ed evitare la perdita di senso. Per riuscire a creare un clima di benessere in ambito lavorativo è importante che ciascuno abbia a disposizione una buona dose di empatia, sia in grado di gestire le proprie emozioni, abbia autoconsapevolezza, sappia promuovere in generale un atteggiamento positivo e sia capace di gestire eventuali conflitti.
Eppure, alle aziende arrivano persone che queste competenze spesso non le possiedono. E il paradosso è evidente: come possiamo pretendere competenze relazionali a trent’anni, o addirittura dopo, se non le abbiamo mai coltivate prima? «Aspettare l’età adulta per insegnare a relazionarsi è come aspettare il naufragio per insegnare a nuotare» non è un proverbio, è buon senso.
Il vuoto educativo che paghiamo al lavoro
La questione è intuitiva: si chiede a un gruppo di adulti di essere competenti relazionalmente sul lavoro, dopo averli sottoposti per più di vent’anni a un sistema educativo che ha sistematicamente trascurato lo sviluppo emotivo-relazionale, coltivando quasi esclusivamente la dimensione cognitiva-culturale.
Se si è frequentato per un po’ di anni il sistema scolastico educativo italiano, o si hanno figli in età scolare, si può capire facilmente l’assunto. Oggi, la scuola si dà ufficialmente il compito di promuovere lo sviluppo del pensiero critico, di integrare in modo interdisciplinare i diversi saperi, seguendo l’idea che l’apprendimento sia il più significativo possibile. Nonostante gli innegabili sforzi, la scuola fatica ancora a integrare pienamente la dimensione emotivo-relazionale.
I numeri raccontano una storia preoccupante: la dispersione scolastica si attesta al 9,8% nel 2023.
Secondo un’indagine dell’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza (AGIA), il 51,4% degli studenti delle scuole secondarie soffre di ansia o tristezza. Altri dati includono il 49,8% che soffre di stanchezza, il 46,5% di nervosismo e il 29% di frequenti mal di testa. Inoltre, il 25,4% degli studenti dichiara di non dormire bene. Secondo i dati Istat del 2023, un ragazzo su cinque tra gli 11 e i 19 anni ha subìto episodi di bullismo o cyberbullismo nell’ultimo anno. Il 21% degli studenti ha subito atti vessatori più volte al mese, mentre l’8% li ha subìti almeno settimanalmente.
Insomma, un compito non scontato quello di arrivare all’età adulta con un bagaglio emotivo-relazionale solido, soprattutto se, alla soglia dei trent’anni, si è catapultati dal sistema scolastico educativo direttamente a quello lavorativo senza che nessuno abbia mai insegnato davvero come gestire un conflitto, come riconoscere le proprie emozioni, come costruire relazioni di fiducia.
Il problema è sistemico (e ci riguarda tutti)
A fronte di questi dati, qualcuno potrebbe obiettare che la scuola in questo periodo storico stia affrontando, senza riuscirci davvero, un compito immane per le sue forze, tentando di colmare lacune (affettive, relazionali, psicologiche) che non starebbe a lei sola riempire. Ed è vero. La scuola, pur avendo valenza educativa fondativa, non può risultare l’unica mandataria dell’educazione dei minori. La questione è sistemica e appartiene in primo luogo alla famiglia, poi all’Istituzione scolastica e infine alla società.
Un tempo, sembrava che questi tre attori riuscissero a integrarsi più facilmente. Oggi, sembra mancare soprattutto la definizione dei principi base attorno a cui organizzare quella integrazione; quindi, la scuola da una parte e le famiglie dall’altra si percepiscono sole a navigare a vista in un mare in bufera. Talvolta la scuola non riesce a intervenire in modo efficace per recuperare i ragazzi con comportamenti limite. Sovente, si affidano alla scuola compiti educativi impegnativi senza concederle gli strumenti adeguati per affrontarli. Spesso i ragazzi sono lasciati soli in un vuoto educativo per i mille impegni cui devono far fronte gli adulti. Di frequente i genitori non riescono a reagire alle pressioni sociali e non sono in grado di dare limiti ai figli.
Ed eccoci al punto: i genitori di cui parliamo sono gli stessi che al lavoro vengono chiamati a esprimere ottime competenze di relazione, di empatia e autoconsapevolezza, e sono gli stessi che a casa si trovano in difficoltà e decidono di delegare alla scuola l’educazione dei figli. Il cerchio si chiude, ma nella direzione sbagliata.
Le aziende hanno già capito qualcosa
Paradossalmente, sono proprio alcune aziende ad aver intuito prima di altri che investire nelle persone – nella loro totalità, non solo nelle loro competenze tecniche – conviene. E non per buonismo, ma per strategia. Sempre più spesso le aziende si assumono questa sfida e mettono a disposizione dei dipendenti benefit per la cura alla persona che si spingono in alcuni casi anche all’assistenza ai genitori anziani oppure al supporto psicologico per situazioni di stress da lavoro.
Ci sono aziende (Hilton Italia), particolarmente sensibili all’inclusione e alle questioni gender, che garantiscono un ambiente attento alle pari opportunità, all’equità e al rispetto. Altre (Lamborghini) che hanno introdotto una riduzione dell’orario di lavoro annuale, con giornate libere aggiuntive per la produzione e per gli impiegati.
Alcune (Illumia) che propongono iniziative come l’orario ridotto per le mamme, servizi “salvatempo” come lavanderia e spesa online con consegna in ufficio e un ampio pacchetto di convenzioni sanitarie e ricreative. Altre ancora (Sanofi Italia) che propongono percorsi di supporto alla genitorialità, prevenzione sanitaria e iniziative di ascolto e counseling o che investono nella crescita delle persone con percorsi formativi dedicati a tutte le funzioni.
Questi interventi dimostrano che quando un’azienda investe sul benessere relazionale ed emotivo dei dipendenti, il ritorno c’è: si riducono assenteismo e turnover, aumenta la produttività, migliora il clima interno. Ma soprattutto si crea un terreno fertile per quella “ecologia delle relazioni” di cui c’è tanto bisogno. Anche in questi casi, però, sono la visione e la propensione all’investimento economico che fanno la differenza.
Una proposta concreta: aziende e scuole insieme
Bisogna allora inventare una nuova visione: una stretta collaborazione tra famiglia, scuola e agenzie educative che permetta ai ragazzi di crescere sviluppando quelle competenze che risulteranno loro utili anche in età adulta. Ma qui entra in gioco un attore spesso sottovalutato: le aziende stesse.
In realtà, di esempi virtuosi nel mondo scolastico ce ne sono, eccome: scuole che fanno del rapporto con la famiglia il perno su cui ruota tutta l’azione educativa, riuscendo a integrare lo stile familiare con il percorso educativo-didattico (Scuole FAES). Scuole che collaborano a stretto contatto con i genitori per strutturare al meglio il percorso dei figli/studenti, con un’attenzione particolare alla disabilità, partendo in primis dalle necessità di sviluppo emotivo per poi arrivare a quelli di crescita culturale (Scuola per Ciechi “Vivaio”). Scuole aperte al territorio, in un continuo scambio di saperi e competenze (Scuole Aperte Partecipate). Scuole con progetti pilota volti alla crescita personale e allo sviluppo delle competenze emotive (La scuola delle emozioni a Modena).
Certo è che queste realtà dalla propria hanno finanziamenti e un’attenzione particolare dalle amministrazioni, hanno una dotazione di personale maggiore e margini di manovra e di indipendenza impensabili altrove. Forse è anche qui che risiede la sfida: investire seriamente a livello economico, politico e amministrativo in progetti educativi perché i risultati ricadano sull’intera società.
Allora, visto che assistiamo già a proposte che aprono a un intervento ecologico e che anche la scuola ha dimostrato di poter aprirsi a nuove soluzioni, perché non far incontrare le due prospettive? Agendo in modo integrato si potrebbe intervenire attraverso i lavoratori di oggi (i genitori) su quelli del domani (i figli).
Il caso Lombardia: un laboratorio possibile
Se pensiamo alla realtà lombarda – dove questo intervento potrebbe inserirsi – possiamo rilevare subito la stretta vicinanza tra le scuole e le aziende che partecipano al tessuto economico della regione. Se queste aziende si proponessero come veicolo di apprendimento integrato per le giovani generazioni, stringendo partnership con le scuole, si potrebbero raggiungere obiettivi multipli e convergenti.
Cosa significherebbe concretamente? Si potrebbero creare, in azienda o a scuola, programmi di mentoring dove lavoratori esperti accompagnano studenti in percorsi di orientamento non solo professionale ma anche emotivo-relazionale. Attività di orientamento che non si limitino a spiegare “cosa fa un ingegnere” ma che mostrino come si gestisce un team, come si affronta un conflitto con un collega, come si costruisce fiducia in un gruppo di lavoro. Iniziative culturali e didattiche condotte o partecipate da studenti e lavoratori, dove generazioni diverse – e spesso molto distanti per abitudini, esperienze e modalità d’azione – si incontrino davvero.
In questo modo si creerebbe una forte sinergia tra le aziende, le scuole e il territorio attraverso pratiche quotidiane comuni. Le diverse generazioni si potrebbero conoscere in modo più approfondito, si potrebbero contagiare le une le altre, si potrebbe ristabilire quella continuità di saperi culturali e pratici che oggigiorno si fa fatica a ritrovare. Le aziende potrebbero diventare il luogo centrale della formazione della persona nella sua totalità, favorendo non solo il comparto produttivo, ma anche quello scolastico e sicuramente quello territoriale.
E qui sta il vantaggio strategico per le aziende stesse: non si tratta di filantropia, ma di investimento nel proprio futuro. Formare i lavoratori di domani significa avere accesso a persone che già conoscono la cultura aziendale, che hanno sviluppato competenze relazionali solide, che sanno gestire conflitti e lavorare in team. Significa ridurre i costi di onboarding, aumentare la retention, costruire un bacino di talenti già “educati” all’ecologia delle relazioni. Significa, soprattutto, agire su quella zona fragile dove gli esseri umani si incontrano, trasformandola da rischio in opportunità.
Inoltre, se l’amministrazione politica (comunale, provinciale, regionale) decidesse di partecipare a questa rete, potrebbe fare la parte di motore di progresso collettivo, in un’ottica di valorizzazione dell’individuo e della comunità. Coordinando, incentivando e finanziando queste partnership, l’amministrazione pubblica potrebbe moltiplicare l’impatto e garantire che l’ecologia delle relazioni non resti un privilegio di poche realtà illuminate, ma diventi un diritto diffuso.
Perché alla fine, se davvero crediamo che il futuro si giochi nella zona fragile dove gli esseri umani si incontrano, dobbiamo ammettere che quella zona va coltivata fin dall’inizio. E va coltivata insieme.

*Chi è l’autrice
Claudia Bassanini è un’insegnante con una ventennale esperienza in scuole ad alta complessità. Il suo approccio educativo è centrato sulla crescita personale e sulla valorizzazione delle capacità individuali, attraverso la costruzione di relazioni positive e personalizzate. Convinta che la famiglia e il contesto siano radice, sostegno e trampolino di lancio nella storia di ciascuno, utilizza una metodologia sistemica che tenga conto delle esigenze del singolo alunno, delle peculiarità familiari, delle possibilità della scuola e delle aspettative del mondo che accoglierà i ragazzi alla fine degli studi.
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