 
                    Smart working, gli italiani dicono sì nonostante qualche rischio
Diffusi i dati dell'Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano realizzato con Doxa: il remote working è in aumento nella PA e in rialzo nelle grandi imprese. Presenti anche rischi portati dall'over working degli smartworkers e dall'AI se non adeguatamente gestita.
Lo smart working piace agli italiani, al punto che oltre tre milioni e mezzo di lavoratori attivi nel nostro Paese fruiscono della possibilità di lavorare a distanza, con un leggero aumento rispetto allo scorso anno. Lo sostiene l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, realizzato in collaborazione con Doxa. Il maggiore aumento, pari all’11%, sarebbe stato rilevato nel settore della Pubblica Amministrazione, con il numero attuale di lavoratori a distanza pari a 555 mila, corrispondenti al 17% dei dipendenti pubblici in totale.

Analogo rialzo di smart worker è presente anche nelle grandi imprese (+1,8%), dove oggi il 53% del personale lavora da remoto (1.945.000 persone), mentre le piccole e medie imprese sono in controtendenza: qui i lavoratori da remoto si riducono sensibilmente (-7,7% nelle PMI, -4,8% nelle microimprese) per rappresentare solo l’8% del totale.
La possibilità di “fare smart”, prosegue l’indagine, è oggi presente nella quasi totalità delle grandi imprese italiane (95%, stabili rispetto allo scorso anno) e nel 67% delle PA (6 punti in più rispetto al 2024), quasi sempre attraverso progetti strutturati in cui sono definite policy o linee guida.
Nelle Pmi, che attivano lo smartworking nel 45% dei casi, la gestione del lavoro a distanza deriva al contrario direttamente da accordi presi con il responsabile.
La presenza in ufficio è legata a motivi di emergenza e necessità per la maggior parte dei lavoratori delle aziende più grandi, dove solo il 15% lavora da remoto meno giorni di quelli previsti dall’accordo con l’organizzazione. Nelle PA, invece, lo fa il 28%, soprattutto per scelte personali.
Maggiore eterogeneità nelle Pmi, dove circa metà lavora da remoto per i giorni definiti dall’accordo, mentre il 22% utilizza di meno questa possibilità e un 15% invece la usa di più, grazie alle maggiori deroghe rese possibili con l’approccio informale.
In ogni caso, tutti i dati riportati dall’indagine del PoliMi parlano di un fenomeno smart working che ormai si può ritenere stabile nel nostro Paese, che ha detto definitivamente addio al suo ricorso legato alla sola emergenza Covid.
A diffondersi è quindi un nuovo modello di lavoro, basato sul mix tra presenza e remoto, che si alternano in funzione dei bisogni personali e organizzativi, secondo policy o linee guida definite dall’organizzazione. L’avvento della nuova forma non avrebbe tuttavia ancora raggiunto il suo picco massimo.
Secondo la ricerca, infatti, tra coloro che non lavorano da remoto, il 21% dichiara che potrebbe svolgere almeno metà delle attività da un luogo diverso rispetto alla sede aziendale con la stessa efficacia e la stessa dotazione tecnologica. Il dato rilevato farebbe pertanto immaginare la presenza di un potenziale di circa 3 milioni di nuovi smart worker, il che ci avvicinerebbe al picco di 6,5 milioni toccato durante la pandemia.
La nuova tendenza è coerente con un altro fenomeno emergente in questi ultimi anni, ossia la quota di lavoratori che fanno della flessibilità oraria il proprio faro guida. Si pensi ad esempio agli estimatori della settimana corta, che oggi è presente solo nel 10% di organizzazioni di grandi dimensioni e in molti casi è ancora in fase di sperimentazione.
Il compito di commentare i dati raccolti nell’indagine spetta a Mariano Corso, Responsabile Scientifico dell’Osservatorio Smart Working, il quale ha detto: «Oggi il vero interrogativo per i manager non riguarda “se” fare Smart Working, ma come far evolvere i modelli per renderli sempre più efficaci ed evitare che si assestino in routine “scontate” che non garantiscono la necessaria tensione al miglioramento. Per sfruttare appieno le potenzialità di trasformazione dello Smart Working, capi e collaboratori devono lavorare per rafforzare continuamente la capacità di assegnare e perseguire obiettivi di progetto, di delegare e di sentirsi responsabilizzati sui risultati, mentre le organizzazioni devono riflettere sull’evoluzione di questi modelli per rispondere alle esigenze emergenti delle persone e cogliere le opportunità offerte dall’evoluzione tecnologica».

A sua volta, Fiorella Crespi, Direttrice dell’Osservatorio Smart Working, ha aggiunto: «In un Paese in cui la forza lavoro si riduce e invecchia, lo Smart Working vissuto come stimolo continuo al miglioramento organizzativo può accompagnare l’innovazione tecnologica diventando leva strategica per rispondere alle dinamiche demografiche, mantenere la competitività sul mercato e rendere il lavoro più sostenibile per le persone». Se però non è vista come strumento per liberare davvero i lavoratori dalle mansioni più ripetitive, l’AI rischia invece di «diffondere una percezione di sostituibilità delle persone, minando motivazione, engagement e senso di purpose individuale, soprattutto tra le nuove generazioni. I manager devono utilizzare lo Smart working per mantenere una tensione al miglioramento e generare fiducia nell’impatto positivo che le nuove tecnologie possono dare nel rendere il lavoro più attrattivo, sicuro e sostenibile, valorizzando e non perdendo il contributo delle persone».
Per leggere i dati chiave della ricerca, corredati dalle relative infografiche, basterà cliccare su questo link
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