Dipendenti e aziende, il “grande gap” di una relazione complicata

Con un nome evocativo dal sapore letterario, il Great Employee Benefits Study fotografa lo scollamento tra l'offerta di welfare aziendal e la percezione che ne hanno i dipendenti in vari Paesi Ue

Aziende virtuose in tema di welfare? Può darsi, ma i dipendenti non sono sempre d’accordo. Lo sostiene l’edizione 2025 di GEBS, acronimo che sta per “Great Employee Benefits Study”, realizzato da Epassi in collaborazione con l’università finlandese di Aalto. Basato su un campione di 6.000 dipendenti e 1.435 dirigenti e HR di aziende con oltre 50 dipendenti, lo studio fotografa con chiarezza la presenza di uno scarto tra aspirazioni e realtà, assegnandogli un nome dall’evocativo fascino letterario, ossia “Grande Gap”.

Da una parte, dice quindi GEBS, ci sarebbe un 77% di imprese convinte di offrire soluzioni welfare realmente efficaci; dall’altra, si dichiarerebbe invece realmente soddisfatto solo un dipendente su due. Oltretutto, prosegue lo studio, in Italia solo il 65% dei lavoratori dichiara di sentirsi realmente coinvolto nel proprio lavoro, un tasso di engagement decisamente più basso rispetto al Regno Unito, dove raggiunge l’88%, e la Germania, dove si attesta al 77%. Nei Paesi nordici come Svezia e Finlandia si tocca addirittura il 91% e giusto un punto in meno nei Paesi Bassi.

Come colmare, quindi, un gap di questa portata? Il compito di dare una risposta articolata spetta ad Alberto Perfumo, Ceo di Eudaimon, la società italiana che ha consentito alla finlandese Epassi di ampliare il suo osservatorio sul welfare aziendale: «Colmare il grande gap – dichiara Perfumo – significa ripensare il ruolo dell’impresa nella vita delle persone, passando da erogatore di servizi a partner di benessere. Oggi il vero ostacolo non è solo offrire soluzioni di welfare, ma riuscire a comprenderne il linguaggio. Aziende e persone spesso non parlano la stessa lingua: mentre le prime ragionano in termini di benefit e performance, le seconde esprimono bisogni, emozioni e aspettative che non sempre trovano spazio nei modelli organizzativi tradizionali. Se il welfare non parla la lingua della vita quotidiana, non genera valore. E se non genera valore, diventa invisibile».

Il tema del welfare aziendale non è tuttavia l’unico focus di GEBS, che si sofferma anche sul coinvolgimento emotivo e professionale dei dipendenti, fenomeno che prende il nome di “employee engagement”. In merito lo studio sostiene che sia pari al 35% la percentuale di dipendenti che non utilizza o considera inutili i benefit a loro disposizione.

Come si affronta un problema del genere? Migliorando l’esperienza dei propri collaboratori, un campo in cui l’Italia sarebbe fortemente in ritardo rispetto agli altri Paesi europei.

Il welfare aziendale come leva strategica di engagement sarebbe infatti nettamente superiore alla media italiana ad esempio nei Paesi Bassi dove raggiunge il 66%. Oltretutto, il divario tra noi e gli altri Stati analizzati da GEBS è altissimo anche dal punto di vista della percezione da parte dei dipendenti degli sforzi compiuti dai propri datori di lavoro. Solo il 32% degli italiani afferma infatti di notare miglioramenti nella propria esperienza lavorativa, contro il 58% nel Regno Unito e il 62% nei Paesi Bassi. In Italia, quindi, non solo si investe meno, ma spesso lo si fa in modo poco visibile o inefficace.

In questo scenario, il ruolo delle aziende cambia completamente. Lo sottolinea Elisa Terraneo, marketing manager di Eudaimon, con queste parole: «Oggi il welfare aziendale non può più essere pensato come una somma di benefit scollegati, ma come un ecosistema integrato, capace di generare valore reale per le persone. Ogni iniziativa, ogni servizio, ogni attenzione deve inserirsi in un disegno più ampio, dove il benessere non è un obiettivo a margine, ma il cuore pulsante della strategia aziendale. È in questa visione sistemica che il welfare evolve: da accessorio a leva di trasformazione culturale».

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