Fragilità maschile al lavoro, un problema da combattere con umanità e cultura

Nel suo nuovo articolo, la contributor Federica Celeste si sofferma sullo spinoso fenomeno della solitudine maschile nei posti di lavoro, un problema da affrontare con giusta consapevolezza, preparazione e umanità. A prova di Paloma.

di Federica Celeste*

Il termine incel involuntary celibate — evoca immagini di rancore, misoginia, estremismi digitali. La manosfera — quell’arcipelago frammentato di forum, blog, canali video popolati da uomini che si percepiscono esclusi dalle dinamiche sociali e affettive — è stata raccontata quasi sempre come un problema di sicurezza, di devianza, di emergenza sociale.
Cos’è, davvero, quella ferita che suppura dietro la maschera dell’odio?

Gli uomini che si rifugiano nel terreno invisibile della frustrazione non sono mostri: sono figli della stessa cultura che in azienda celebra la competitività, l’assertività, l’autoaffermazione come imperativi morali. Sono prodotti collaterali di un mondo che ha insegnato agli uomini a misurare il proprio valore in base al successo sessuale, economico, gerarchico.

Dietro sigle come incel si nasconde un fenomeno più profondo: la solitudine. La difficoltà a sentirsi riconosciuti, amati, adeguati. Nelle aziende, questi vissuti entrano spesso in modo carsico, generando isolamento, sfiducia, oppositività. Comprendere il dolore che anima queste dinamiche non significa giustificare comportamenti tossici, ma riconoscere che il benessere organizzativo passa anche dalla capacità di ascoltare i bisogni inespressi.

Non solo odio, insomma, ma derive che rappresentano una richiesta di ascolto. Molti uomini che gravitano in comunità online che inneggiano alla rabbia non cercano la distruzione dell’altro, ma una legittimazione del proprio dolore. La mancanza di relazioni affettive, di senso di appartenenza, il sentirsi inadeguati rispetto agli ideali imposti di successo, virilità, potere. Quando questi standard si dimostrano irraggiungibili — per carattere, aspetto fisico, fragilità relazionale, o semplicemente per casualità della vita — il senso di fallimento non trova uno spazio di elaborazione.

Non ci sono riti di passaggio per chi non vince. Non c’è empatia per chi non conquista. Non c’è linguaggio per chi non performa.

La solitudine incel, dunque, non è la semplice assenza di relazioni: è la sensazione di essere invisibili e irrimediabilmente inadatti. Un’esperienza di esclusione strutturale. Un lutto senza funerale.

In molti casi, il posto di lavoro diventa l’ultimo palcoscenico su cui recitare una parte di competenza, valore, riconoscimento. Ma portarsi dietro un’identità ferita significa vivere ogni dinamica lavorativa — un feedback, una promozione negata, una riunione trascurata — come una nuova umiliazione.

I segnali sono spesso invisibili ai radar tradizionali delle HR. Sto parlando ad esempio di:
disimpegno emotivo mascherato da cinismo;
resistenze sottili a programmi DE&I (linquidati con un «Ancora queste robe sulle donne?»);
boicottaggio e insofferenza verso capi o colleghe che incarnano modelli di leadership inclusiva;
commenti e battute apparentemente “ironici” che nascondono disprezzo, sessismo o misoginia.

Quando questi pattern si cronicizzano, non siamo più di fronte a semplici incidenti culturali patriarcali. Siamo davanti a ecosistemi di frustrazione che intossicano il gruppo, abbassano il livello di fiducia, e seminano micro-risentimenti difficili da sanare.

Lo dimostrano dati come quelli contenuti nel rapporto “Women in the Workplace” di McKinsey & LeanIn (2023), che rileva come oltre il 42% delle donne riferisca di aver subito micro-aggressioni o ostilità sistemica legata al genere nel contesto lavorativo. Questa percentuale sale fino al 60% nei settori tech e finance, storicamente più permeabili a subculture maschili competitive e chiuse.

Ecco perché trattare il fenomeno incel come una semplice “stranezza sociologica” è pericoloso. È, a tutti gli effetti, una questione di sicurezza aziendale e di salute pubblica.
Negare l’esistenza del disagio maschile — o peggio, liquidarlo come devianza marginale — è un errore strategico. Ignorare queste dinamiche alimenta proprio il senso di esclusione che nutre le manosfere tossiche.

Il punto non è proteggere chi è ostile. È riconoscere il disagio prima che diventi ideologia. È costruire ambienti di lavoro in cui il valore delle persone non sia una gara a ostacoli su metriche di virilità, potere, o charme.
Quando ci si sente falliti nella sfera personale, anche la sfera lavorativa può diventare una cartina di tornasole di insicurezze profonde. Boicottare, ritirarsi, disprezzare può essere (inconsapevolmente) un modo per difendersi dalla vergogna.

Prendere sul serio questi segnali riafferma un principio chiave: nessuno dovrebbe sentirsi invisibile o non abbastanza umano per meritare rispetto, comprensione, possibilità di riscatto.
Nella distanza che separa un commento sarcastico da un gesto violento, spesso c’è solo uno spazio di ascolto che è mancato. Non possiamo ignorare i nuovi volti della fragilità maschile. Chi si occupa di risorse umane ha il compito – etico e strategico – di aprire quel varco intervenendo sulla cultura aziendale, non solo sui singoli episodi.

Un progresso inclusivo trasformativo si basa sul senso di appartenenza e sul riconoscimento di tutte le vulnerabilità. Pregiudizi e preconcetti, sommati all’ostilità latente contro iniziative DE&I, hanno un impatto su clima, coinvolgimento e produttività.
Riconosciamo che la frustrazione maschile non è un tabù. Creiamo spazi di ascolto anche per il disagio tra i generi. Non basta “formare sulla diversità”. Non basta “punire i comportamenti scorretti”. Serve allenare la capacità di abitare la vulnerabilità che diventa performance. Serve costruire nuove immagini di mascolinità, non da salvare ma umanizzare. Serve creare organizzazioni dove il dolore non debba più nascondersi tra gli stereotipi delle stigmatizzazioni intersezionali.

In sintesi, occorre cogliere il problema di umanità oltre ogni ideologia. Perché la dinamica che avviene negli adolescenti soli e disperati è la stessa che, se non interrotta, rinforza da adulti le reti della manosfera e i fenomeni incel. Capire le nuove forme di alienazione aiuta a prevenire maltrattamenti e rischi di violenza latente.

Ripeto: non si tratta di giustificare l’odio, né di sminuire le battaglie per l’equità di genere. Si tratta di comprendere che una società inclusiva non può permettersi di abbandonare pezzi di umanità lungo la strada. Perché ogni solitudine ignorata oggi è una potenziale crisi collettiva domani. E il lavoro, più di ogni altro spazio, ha la responsabilità — e l’opportunità — di sanare.

A patto di smettere di pensare che chi è arrabbiato sia solo cattivo. Spesso, è solo stanco di non essere visto. Questa è una sfida educativa, non solo gestionale. Non si tratta di cedere al vittimismo maschile né di minimizzare la violenza strutturale contro le donne. Va spezzata la catena del silenzio che trasforma l’insicurezza in aggressione, e il rifiuto in guerra. È bene prevedere percorsi di supporto emotivo anche per chi fatica a chiedere aiuto. Sosteniamo una cultura aziendale non performativa, ma autenticamente umana a prova di Paloma.

* Chi è l’autrice

Pedagogista delle organizzazioni e ingegnera gestionale, Federica Celeste è ricercatrice internazionale per il Politecnico di Milano. Oggi si occupa di formazione, benessere e gestione del cambiamento, dentro e fuori le aziende. Con un’anima divisa tra i numeri e le crepe psicologiche delle persone, le piace indagare il lato oscuro, ambiguo e tagliente delle storture lavorative. Appassionata di cinema e attivista per i diritti umani e animali, crede in un’idea di sostenibilità informata, anche se sa benissimo dove finiscono le buone intenzioni quando si scrive un post su LinkedIn.
Paloma nasce proprio dal suo bisogno di non smettere di metterci il cuore, mettendoci però il becco. Troppo giovane per essere vecchia, troppo vecchia per essere giovane, scrive e lavora da quell’età di mezzo in cui la lucidità è un superpotere. E anche una condanna.

SEGUI LA DIRETTA DI: