
Festa della mamma: meno fiori, ma più azioni concrete per favorirne il rientro al lavoro
La Festa della mamma offre alla nostra contributor Atena Manca l'opportunità di riflettere sulla persistenza nella società di pregiudizi che mettono in dubbio la capacità delle donne di prestare la dovuta attenzione alla propria carriera una volta passate attraverso l'esperienza della maternità. Si tratta di un problema per nulla privato, che va invece affrontato con strumenti adeguati
di Atena Manca*

Ogni anno, tra la festa dei lavoratori e quella della mamma, torna alla ribalta – più o meno velatamente – il tema della conciliazione tra lavoro e maternità. Più fiori e cioccolatini per tutte, ma meno dibattito concreto su come il mondo del lavoro continui a trattare le madri. Eppure, proprio da lì dovremmo partire. Perché dietro una maternità ci sono spesso due storie parallele: quella personale, piena di gioia, fatica e cambiamenti, e quella professionale, fatta di stereotipi, opportunità mancate e bias ancora duri a morire.
Il maternal bias è il pregiudizio che porta a considerare le madri, o le donne che potrebbero diventarlo, meno coinvolte, meno competenti o meno ambiziose nel loro lavoro. Non si tratta di una percezione soggettiva: secondo uno studio 2024 di Lean In e McKinsey, le madri lavoratrici hanno il 20% in meno di probabilità di ricevere promozioni rispetto alle colleghe senza figli. E non è tutto: in media, ricevono valutazioni di performance inferiori, a parità di risultati. Il pregiudizio inizia molto prima del primo figlio.
Basta dichiarare di volerne uno, o anche solo convivere stabilmente con un partner, per vedere cambiare lo sguardo di chi ti valuta. Le decisioni cominciano a basarsi su supposizioni: «Forse non potrà viaggiare», «magari non reggerà lo stress», «probabilmente avrà altre priorità». Supposizioni che non corrispondono alla realtà per tutte e che, paradossalmente, vengono formulate senza neppure interpellare la diretta interessata. Come se la maternità annullasse automaticamente la voce e la volontà professionale di una donna.
Non è un bias che riguarda solo gli uomini. Anche molte donne, inconsapevolmente, vi contribuiscono. Ecco perché non è solo un problema individuale, ma un nodo culturale e sistemico che riguarda le aziende nel loro insieme. Uno studio di Harvard ha mostrato che i CV in cui si menziona il volontariato scolastico o il ruolo di “coordinatrice attività genitori-insegnanti” ricevono il 79% di richieste di colloquio in meno. E le stime salariali per una madre sono inferiori in media di 11.000 dollari all’anno rispetto a un collega uomo con lo stesso profilo.
È vero: l’assenza per maternità è un tema organizzativo. Spaventa manager e responsabili già oberati. Ma se affrontato con pianificazione, trasparenza e spirito collaborativo, può diventare un’opportunità di crescita per tutti. Le madri possono anzi devono fare la loro parte: comunicare per tempo, preparare il passaggio di consegne, proporre soluzioni concrete. La professionalità non si misura solo sulla presenza, ma sulla capacità di lavorare con senso di responsabilità, anche da remoto o con orari flessibili.
Poi c’è il rientro. Un momento delicato, spesso sottovalutato. Si torna stanche, vulnerabili, e con mille incastri da far funzionare. Non servono piani miracolosi, ma un minimo di empatia, percorsi di supporto, la possibilità di non sentirsi invisibili o giudicate. Il ritorno al lavoro dopo una maternità dovrebbe essere accompagnato, non ostacolato. Anche un semplice programma di mentoring tra mamme può fare la differenza. O ancora, affiancare un/una giovane stagista nei primi mesi per offrire un supporto concreto, e non solo psicologico. Normalizziamo che per qualche mese non si sia al massimo delle forze. Ma qualche mese non può compromettere anni di lavoro e carriera futuri.
E servono più padri presenti. Le assenze per malattia dei figli, gli inserimenti al nido, gli orari da rispettare non possono ricadere solo sulle madri. La condivisione non è un tema di aiuto, ma di equità. Finché sarà sempre e solo lei a doversi giustificare, nessun equilibrio sarà davvero possibile.
In Italia, qualcosa si già è mosso per fortuna. Alcune aziende virtuose hanno introdotto nidi aziendali, sportelli psicologici, smart working e flessibilità. Ci sono aziende che accompagnano il rientro con percorsi di coaching, che promuovono le madri senza pregiudizi e che costruiscono carriere realmente inclusive. Ma sono ancora una minoranza.
Secondo l’ultima indagine di Valore D, meno del 30% delle aziende italiane ha programmi attivi e strutturati per la genitorialità. E solo il 9% delle madri intervistate dichiara di sentirsi supportata nel proprio percorso di crescita post-maternità.
La posta in gioco non è solo individuale. Ancora una volta è collettiva. Le madri che lavorano, se valorizzate, generano valore. Per le aziende, per l’economia, per la società. Lo dimostrano i dati OCSE: nei Paesi in cui è più alta l’occupazione femminile, anche il PIL cresce di più. E i figli delle madri lavoratrici crescono con modelli più aperti e un’autonomia maggiore.
Allora forse è tempo di smettere di raccontarci che «la maternità è un fatto privato». È un tema pubblico, aziendale, sociale. E il maternal bias è ancora qui, sotto pelle, a fare danni. Possiamo ignorarlo, oppure affrontarlo. Insieme. Con politiche concrete, gesti quotidiani, responsabilità condivise. Anche questo significa celebrare le madri. Anche questo è lavoro.
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Buona festa della mamma a tutte!

* Chi è l’autrice
Atena Manca è una professionista con 20 anni di esperienza nel marketing e nella comunicazione. Laureata in Economia per l’Arte e la Cultura all’Università Bocconi e con un Master in Marketing a Publitalia ’80, ha completato di recente il corso Mastering Digital Marketing in an AI World alla London Business School. Creatrice del blog Madonnager.it, Atena condivide riflessioni e consigli (anche quelli non richiesti!) su come bilanciare carriera, maternità e vita personale, sempre con un pizzico di ironia.
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