La negoziazione efficace comincia dal corpo, con coraggio e mente aperta

Nel suo nuovo articolo Federica Celeste spiega perché la negoziazione efficace sia legata a doppio filo alla nostra maturità psicologica, diventata una competenza personale e relazionale sempre più richiesta nelle organizzazioni moderne

di Federica Celeste*

L’espressione “persone al centro” ricorre ovunque, dal marketing alla formazione. Tuttavia, la centralità reale dell’umano richiede un livello di consapevolezza emotiva e comunicativa spesso trascurato. La qualità delle relazioni dipende dalla capacità di decodificare emozioni e comportamenti, di cogliere ciò che accade tra una micro-espressione sfuggente e un linguaggio non verbale che (non) mente. La comprensione dell’altro avviene nei momenti più complessi, quando occorre sospendere l’urgenza delle proprie richieste per incontrare quelle di entrambi.

Le trattative non sono più uno scontro tra interessi contrapposti, ma il luogo in cui si misurano maturità emotiva, lucidità strategica e capacità di abitare il conflitto senza esserne travolti. Costruire ponti invece di bruciarli, soprattutto quando la relazione è destinata a continuare, richiede la convinzione che il valore possa essere creato insieme, non solo diviso. Un accordo è solido quando entrambe le parti lo considerano conveniente nel tempo. Agire da pari non significa rinunciare ai propri interessi, ma chiarirli, negoziarli e difenderli senza cadere né nell’aggressività né nella compiacenza.

In questa prospettiva, la negoziazione diventa una delle competenze identitarie più sofisticate della contemporaneità. Le interdipendenze tra relazioni professionali e personali, le organizzazioni fluide, i confini porosi tra ruoli e aspettative impongono una lettura più profonda del contesto. Non si tratta soltanto di raggiungere un accordo, ma di riconoscere la trama invisibile di interessi, percezioni, valori, emozioni e possibilità future.

La prospettiva win-win ha segnato una svolta rispetto alla concezione competitiva del negoziare. L’idea che una parte possa vincere solo a danno dell’altra appartiene a un’epoca in cui i rapporti erano più statici e le relazioni meno interconnesse. Gli scenari attuali richiedono accordi sostenibili, orientati alla valorizzazione reciproca e alla continuità della relazione. Un negoziatore efficace non mira alla vittoria immediata, ma alla costruzione di un equilibrio che generi fiducia e abiliti collaborazioni future. Ciò implica obiettivi chiari, ma anche la capacità di ridefinirli alla luce di nuove informazioni o cambiamenti del contesto.

In questo quadro, la BATNA (Best Alternative To a Negotiated Agreement) rappresenta un riferimento fondamentale. Conoscere la migliore alternativa possibile all’accordo preserva autonomia e lucidità anche nelle fasi più tese. Questo ancoraggio è strategico e psicologico: libera dalla paura del “tutto o niente”, consente di resistere a pressioni indebite e impone un lavoro preliminare di analisi, raccolta dati, valutazione di rischi e opportunità. Una trattativa complessa non può prescindere da questo esercizio di realtà. La BATNA non è un piano B improvvisato, ma una valutazione rigorosa del proprio potere negoziale, utile per stabilire il livello delle concessioni sostenibili e il momento in cui interrompere il confronto. La sua controparte, la WATNA (Worst Alternative To a Negotiated Agreement), aiuta a misurare la portata del rischio. Non serve a generare paura, ma a evitare che chi ignora gli scenari peggiori accetti accordi dannosi o instabili.

Se le strategie definiscono i confini del possibile, la comunicazione — verbale e non verbale — plasma il paesaggio interno della trattativa. Le parole delineano intenzioni, limiti e proposte; il corpo rivela ciò che le parole non dicono. Postura, sguardo, distanza, micro-segnali facciali, ritmo respiratorio e tono della voce offrono indizi spesso più affidabili dei contenuti dichiarati. In contesti complessi, la credibilità nasce dall’allineamento tra ciò che si pensa, ciò che si dice e ciò che si mostra. La coerenza non presuppone controllo ossessivo, ma autenticità: gli altri la percepiscono e la riconoscono.

La comunicazione verbale richiede precisione e cura. La scelta delle parole, il ritmo, le pause, la capacità di ascoltare attivamente e di restituire quanto compreso sono elementi che incidono sulla qualità della relazione e dell’esito finale. Le trattative interne, spesso più delicate di quelle esterne, si giocano in larga parte su questa grammatica sottile: un collega non è semplicemente un interlocutore, ma un attore che condividerà gli effetti dell’accordo nel tempo. Così, nelle organizzazioni attuali, attraversate da trasformazioni digitali e da ruoli in continua evoluzione, saper modulare la comunicazione diventa una competenza di leadership.

Tutto converge verso una capacità più ampia: gestire il conflitto e tollerare l’ambiguità. Negoziare significa attraversare zone grigie, divergenze di prospettiva, resistenze emotive. Chi considera le diversità di pensiero un fallimento tende a evitare il confronto e a restare intrappolato nella paura di esporsi. La negoziazione, invece, è proprio lo spazio in cui la discussione può essere trasformata in apprendimento, innovazione, chiarificazione dei ruoli. È un processo che richiede maturità psicologica, ossia la capacità di restare presenti anche quando la tensione cresce, senza arretrare nella difesa né avanzare nell’attacco.

Il valore crescente di queste competenze riflette l’evoluzione degli scenari professionali. Le organizzazioni ricercano profili in grado di integrare visioni diverse, facilitare il dialogo, prevenire fratture interne, generare fiducia nei momenti di incertezza. Le professioni emergenti richiedono sensibilità interculturale, gestione delle parti interessate, moderazione tra vincoli e possibilità. Anche nella vita privata la negoziazione è divenuta una forma di alfabetizzazione emotiva, necessaria per orientarsi tra relazioni affettive, convivenze generazionali e micro-decisioni quotidiane.

La negoziazione si configura così come una forma di intelligenza relazionale. È il modo in cui si attraversano le contraddizioni, si riconoscono gli interessi, si ascoltano le differenze e si immaginano soluzioni condivise senza cedere a interpretazioni rigide o stereotipate. Significa affrontare emozioni che emergono anche quando nessuno le nomina e saper leggere ciò che non viene detto.

L’umano, nelle sue sfumature quotidiane, richiede cura e lucidità. Viviamo in un sommerso di verità condivise, accordi parziali e non detti non navigabili. Sedersi al tavolo significa non fuggire al primo rilancio. È un atto di responsabilità, un modo di camminare nell’entropia con consapevolezza. Ogni accordo autentico nasce da coraggio, ascolto e visione. Conta meno apparire impeccabili e più essere integri, mostrarsi per ciò che si è.
Anche senza faccette dentali, ma adattando svariati piumaggi in stile Paloma. Un sentire che non si improvvisa, e che racconta chi siamo quando smettiamo di recitare. Perché tutto ciò che facciamo quando siamo in privato emerge quando in siamo pubblico. Chi siamo quando nessuno ci guarda?

* Chi è l’autrice

Pedagogista delle organizzazioni e ingegnera gestionale, Federica Celeste è ricercatrice internazionale per il Politecnico di Milano. Oggi si occupa di formazione, benessere e gestione del cambiamento, dentro e fuori le aziende. Con un’anima divisa tra i numeri e le crepe psicologiche delle persone, le piace indagare il lato oscuro, ambiguo e tagliente delle storture lavorative. Appassionata di cinema e attivista per i diritti umani e animali, crede in un’idea di sostenibilità informata, anche se sa benissimo dove finiscono le buone intenzioni quando si scrive un post su LinkedIn.
Paloma nasce proprio dal suo bisogno di non smettere di metterci il cuore, mettendoci però il becco. Troppo giovane per essere vecchia, troppo vecchia per essere giovane, scrive e lavora da quell’età di mezzo in cui la lucidità è un superpotere. E anche una condanna.

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