Le sette paure delle persone disabili al lavoro e la ricetta di Grafton per sconfiggerle
La società del gruppo Gi Group individua sette paure nutrite dalle professioniste e i professionisti appartenenti alle categorie protette in merito alle reali possibilità per loro di fare carriera. L'AD Francesco Manzini spiega qual è la loro strategia per superarle.

Nel mondo del lavoro, la disabilità è un tema ancora piuttosto delicato, anche se le recenti modifiche legislative promettono positivi cambiamenti in futuro. Da poco sono infatti entrate in vigore nel nostro ordinamento le misure previste dal Dlgs 62/2024, che hanno semplificato e uniformato a livello nazionale l’iter di accertamento e di inserimento al lavoro delle persone affette da forme di disabilità molto differenti l’una dall’altra. Si tratta di un passo importante verso l’equità sociale, che tuttavia non annulla ancora del tutto le difficoltà di accesso, permanenza e crescita delle persone disabili all’interno delle organizzazioni. Per favorire un reale cambiamento di cultura e mentalità, è necessario che a superare le paure di “fare carriera” siano le stesse persone disabili pur dotate di qualifiche professionali molto elevate. Lo sottolinea la ricerca curata da Grafton, società di Gi Group Holding, guidata dall’Amministratore Delegato Francesco Manzini, che ha analizzato le sette paure nutrite dalle persone disabili dotate di competenze tecniche o lauree specialistiche.
La prima è essere valutati per la condizione, non per la competenza. Detto in altri termini, molti lavoratori appartenenti alle categorie protette temono di essere percepiti come “assunzioni obbligate”, il che li porta a pensare che la loro professionalità venga messa in secondo piano rispetto alla disabilità, con impatti diretti su autostima e motivazione.
Per vincere questo tipo di bias, i lavoratori disabili vivono spesso una continua tensione che li spinge a cercare di superare i propri limiti pur di dimostrare di essere “all’altezza”. Questo tipo di atteggiamento finisce per generare stress da sovraccarico, che scaturisce dalla gestione congiunta di terapie, limitazioni fisiche o psicologiche con le richieste di performance.
Terza paura sono le barriere invisibili da loro esperite quotidianamente, spesso in maniera più più significativa di quanto non accada con quelle architettoniche. Si tratta ad esempio della scarsa flessibilità di molte organizzazione, insieme con la mancanza di strumenti digitali accessibili o la poca attenzione alle diverse modalità di lavoro.
Quarta paura è la solitudine professionale: molte persone con disabilità faticano a sentirsi parte di una comunità di lavoro, anche per mancanza di sensibilità e formazione nei team. L’onboarding diventa quindi un momento cruciale, che deve coinvolgere tutti i membri dell’organizzazione.
Quinta difficoltà è il timore di non poter far carriera, per colpa di stereotipi o per mancanza di percorsi dedicati. La conseguenza è la paura di restare fermi, relegati a ruoli operativi o marginali, indipendentemente dalle competenze.
Il sesto ostacolo alla piena realizzazione professionale delle persone disabili è l’assenza di role model visibili nel nostro Paese. Da noi sono in altri termini ancora pochi gli esempi di professionisti con disabilità dichiarata in ruoli apicali o decisionali, il che scoraggia in maniera particolare le persone più giovani ad affrontare il percorso per il riconoscimento dell’invalidità.
Settima e ultima paura è per Grafton il cosiddetto “tokenismo”: molti lavoratori con disabilità temono di essere inseriti per “fare numero” o per dare un’immagine inclusiva all’azienda, senza reali possibilità di crescita. Si tratta di una forma di discriminazione particolarmente grave, perché mina il senso di appartenenza e la fiducia nel sistema.
Sui sette bias e in generale sui modi scelti da Grafton per superarli in maniera strategica ha detto in conclusione Francesco Manzini: «L’ascolto rappresenta uno degli aspetti più decisivi nella gestione delle persone da parte delle organizzazioni e del management. Investire nell’inclusione delle categorie protette non deve essere considerato un semplice obbligo normativo, ma una scelta strategica. Limitarsi al rispetto delle regole o al pagamento delle sanzioni significa rinunciare al valore e al potenziale che questi professionisti possono apportare all’organizzazione. Al contrario, adottare strategie mirate alla valorizzazione e alla retention – in cui l’ascolto è fattore di rilievo – consente di accedere a competenze chiave, rafforzare la cultura aziendale e trasformare l’inclusione in un autentico vantaggio competitivo. È in questa direzione che accompagniamo le organizzazioni attraverso la nostra divisione dedicata».
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