Purpose, sempre più aziende sanno cos’è, ma non come utilizzarlo

Sono 836 i manager coinvolti nella survey dell'Osservatorio Purpose in Action della School of Management realizzata con Doxa. Aumenta in generale la consapevolezza sul valore concettuale della parola, ma è ancora bassa la percentuale di chi ne coglie i risvolti pratici nella vita stessa delle organizzazioni.

Cresce nel middle management la consapevolezza sui valori che contraddistinguono la propria azienda, ma la strada per la condivisione profonda del purpose è ancora lunga. Lo dicono i dati contenuti nella ricerca promossa del Politecnico di Milano, chiamata Osservatorio Purpose in Action della School of Management, basate su una survey nazionale curata da Doxa che ha coinvolto 836 manager.

Per cominciare, secondo l’indagine sono 2 su 3 (68%, +6% rispetto al 2024) i manager italiani di medio livello che conoscono e sanno esprimere il purpose della propria azienda. La percentuale sale all’80% tra i direttori e i CEO, mentre scende al 63% per i manager di primo livello.

Supera di solo un punto percentuale la metà del campione intervistato la quota di rispondenti che sa indicare con chiarezza quale sia il purpose nell’organizzazione. Allo stesso modo, ben il 40% fatica a distinguerlo da altri elementi identitari come la visione dell’impresa o la sua mission.

Si ferma ad appena il 17%, inoltre, la percentuale di chi ritiene che i colleghi lo comprendano davvero. Quelli che ne riconoscono la rilevanza nelle proprie attività quotidiane sono il 24%, mentre il 19% non gli associa alcun reale cambiamento.

Josip Kotlar

In merito ai risultati sopra illustrati Josip Kotlar, Direttore Scientifico dell’Osservatorio e Professore ordinario di Strategia, Innovazione e Family Business al Politecnico di Milano, ha commentato: «Queste evidenze indicano una distanza tra ciò che le persone comprendono del purpose a livello concettuale e ciò che riescono a osservare nei comportamenti e nei processi: la consapevolezza è in crescita, ma ora è il momento di tradurla in pratiche concrete a tutti i livelli aziendali, rendendola un fattore di trasformazione e di vantaggio competitivo come nei casi virtuosi che citiamo nel report, dove è entrato a fare parte dei processi decisionali e dei modelli di business. Integrare il purpose nelle strategie aziendali richiede strutture di governance solide, meccanismi di accountability trasparenti e un efficace coordinamento tra i diversi livelli di leadership, capaci di bilanciare obiettivi di breve e lungo periodo. I leader devono assumersi la responsabilità di incarnare il purpose – un concetto dinamico che evolve con l’impresa – e di guidare un cambiamento culturale e strategico che vada oltre la sola comunicazione, conferendo senso e direzione all’intera organizzazione».

Tra gli altri aspetti, la ricerca dell’Osservatorio suddivide le aziende e il loro rapporto con il purpose in tre diversi livelli di “maturità”. Il 48% di loro sono quindi dette Pioneers, perché ritengono di aver integrato appieno il purpose nei processi e nella cultura aziendale. Il 22% sono Explorers, trovandosi in una fase intermedia di consolidamento, mentre poco meno di un terzo è definito Laggards e tratta il purpose come un aspetto superficiale o solo formale.

In ogni caso, precisa l’Osservatorio PoliMi, il purpose sta cominciando a influenzare anche le strategie di investimento, in particolare nell’ambito dell’innovazione e della digitalizzazione sostenibile (41%), della sostenibilità ambientale (33%) e dei progetti sociali o di community engagement (29%). Una quota non trascurabile di imprese (14%), però, dichiara di non aver introdotto alcuna modifica significativa nella strategia di investimento e il 56% non supera il 15% del budget annuale.

Circa l’impatto del purpose sul brand e sul posizionamento competitivo delle imprese, la ricerca sottolinea l’incidenza maggiore sul rafforzamento dell’identità del marchio (21%), seguito dall’influenza sulle strategie di comunicazione e marketing (18%).

La capacità di differenziarsi dalla concorrenza e la revisione del posizionamento strategico sono invece gli ambiti meno trasformati (li indica solo il 17%), mostrando come molte imprese fatichino ancora a tradurre il purpose in un vero vantaggio competitivo e distintivo sul mercato.

Federico Frattini

Il compito di tirare le fila dei risultati riportati nella survey spetta a Federico Frattini, Co-Direttore Scientifico dell’Osservatorio e Professore ordinario di Innovazione Strategica alla POLIMI School of Management: «Le analisi mostrano che nelle imprese italiane oggi il purpose agisce soprattutto come leva esterna di posizionamento, mentre la sua funzione di leva interna di trasformazione organizzativa è ancora acerba. Occorre dunque intervenire sulle aree dove il suo impatto risulta debole, come il potenziamento della formazione e dello sviluppo delle competenze, la revisione dei criteri di valutazione delle performance, il ripensamento del posizionamento competitivo, la traduzione concreta in pratiche gestionali e processi strutturali. Le imprese che vogliono rafforzare l’impatto del proprio purpose dovranno investire non solo in comunicazione e allineamento valoriale, ma anche in strumenti formativi e processi di apprendimento coerenti, capaci di renderlo realmente operativo nella crescita delle persone».

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