
Il benessere mentale entra nell’agenda HR, ma il rischio burnout resta forte
Intitolata “Il benessere mentale come priorità per il lavoro del futuro”, l'indagine targata Randstad - Università Cattolica fotografa un quadro tutt’altro che rassicurante sul rischio burnout dei lavoratori italiani, che alle aziende chiedono sempre più spesso ascolto, equilibrio e fiducia
Un quinto dei lavoratori italiani è a rischio burnout. Lo sottolineano gli HR Trends 2025 curati da Randstad in collaborazione con l’Università Cattolica, che rivelano un livello crescente di stress e disconnessione tra i lavoratori italiani. Al contrario, le aziende che investono nel benessere mentale vedrebbero secondo la ricerca risultati tangibili su motivazione, produttività e fidelizzazione.

Intitolata “Il benessere mentale come priorità per il lavoro del futuro”, l’indagine fotografa un quadro tutt’altro che rassicurante. Tra i sintomi attestanti la presenza di vero e proprio burnout per un buona quota di lavoratori italiani, si citano stanchezza cronica, esaurimento emotivo e ansia eccessiva.
Secondo la ricerca, il 31% si sentirebbe stanco già al mattino, un altro 31% “emotivamente esaurito” e il 28% preda di uno stato di stress costante. A quest’ultimo aspetto – sostiene ancora la ricerca – si aggiunge una diffusa mancanza di coinvolgimento: solo il 25% si sente parte di un gruppo di lavoro aperto, il 20% percepisce di essere compreso e accettato, e altrettanti sentono di avere controllo sul proprio futuro professionale.
Gli HR Trends 2025 mettono quindi in luce anche una richiesta chiara espressa da 7 dipendenti su 10, ossia che le aziende si facciano carico del loro benessere mentale, non solo in ambito professionale ma anche personale. Tuttavia, il gap tra intenzioni e azioni resta evidente. Meno della metà delle imprese ha avviato progetti strutturati: il 45% secondo gli HR, appena il 34% nella percezione dei lavoratori.
Dove invece il benessere viene messo al centro, i risultati si vedono. Le aziende che hanno introdotto iniziative dedicate registrano un incremento dell’88% nel senso di appartenenza, dell’85% nella motivazione e produttività, e dell’81% nella fidelizzazione e nella reputazione. Gli interventi più diffusi spaziano dal welfare per la salute alla flessibilità oraria, dallo smart working alle attività di team building, fino a programmi di coaching e supporto psicologico. Crescono anche le pratiche più creative, come la figura del Chief Happiness Officer, i corsi di judo per la gestione dei conflitti o i cori aziendali per rafforzare il senso di squadra.
In questo scenario, anche l’intelligenza artificiale entra in gioco come potenziale alleato – o rischio – per la salute mentale. Circa metà delle aziende italiane l’ha già introdotta, spesso in modo non strutturato. Per il 62% degli HR e il 65% dei lavoratori l’impatto è positivo: riduce le attività ripetitive e poco gratificanti, alleggerisce i carichi di lavoro e fornisce supporto immediato grazie agli assistenti virtuali. Ma un terzo dei dipendenti percepisce l’effetto opposto: minore senso di utilità, insicurezza lavorativa e riduzione della qualità della formazione.
Proprio la formazione emerge come elemento chiave per prevenire e gestire il disagio. L’86% dei lavoratori vorrebbe riceverne una specifica sul benessere mentale, ma gli HR ne sottovalutano la rilevanza: ritengono che interessi solo il 14% dei dipendenti. Due terzi delle aziende dichiarano di aver aumentato gli investimenti formativi, focalizzandosi su soft skills, gestione dello stress e collaborazione, ma solo un quarto dei lavoratori afferma di averne beneficiato.

Per Maria Pia Sgualdino, Head of Randstad Professional Leaders Search & Selection Italia, «attivare progetti in questo ambito ha ricadute positive sulla qualità del lavoro, la motivazione dei lavoratori e la loro fidelizzazione. Ma nessuno strumento, anche il più innovativo, è sufficiente da solo: serve un’organizzazione che favorisca il wellbeing in senso complessivo». Una visione condivisa anche da Caterina Gozzoli, professoressa dell’Università Cattolica, secondo cui «nelle organizzazioni il benessere mentale e la qualità delle relazioni sono elementi cruciali, ma la ricerca evidenzia uno scollamento tra ciò che le funzioni HR dichiarano e ciò che i professionisti percepiscono. L’intelligenza artificiale può aiutare, ma solo se integrata in strategie chiare e condivise».
Il messaggio che arriva dall’HR Trends 2025 è in conclusione inequivocabile: non si può più parlare di produttività senza parlare di salute mentale. Le persone chiedono ascolto, equilibrio e fiducia. Per chi si occupa di risorse umane, la vera sfida non sarà introdurre nuovi benefit o tecnologie, ma costruire un ambiente di lavoro in cui il benessere diventi un valore condiviso, capace di sostenere davvero la crescita di tutti.
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