
Le strategie anti-job hopping di Aryel per attrarre la Gen Z
Il giovane Ceo di Aryel Mattia Salvi illustra il manifesto sposato dalla sua scale-up per ingaggiare e motivare i giovani lavoratori interessati più al rispetto della propria identità che non allo stipendio.
Essere o non essere, diceva Amleto. Il dubbio per eccellenza colpisce da sempre anche i lavoratori, in bilico tra dare priorità allo stipendio o al rispetto dei propri valori a qualsiasi costo. Eppur si muove, sosteneva invece Galileo Galilei. Fuor di metafora: i bisogni delle persone, soprattutto le più giovani, si stanno spostando sempre di più verso “l’essere”, inteso come il rispetto assoluto di coerenza, appartenenza e possibilità di crescita, all’interno dell’azienda che le ha assunte. Pena, la rinuncia all’impiego in cerca di qualcosa e di qualcuno che rispecchia davvero i loro valori. Chiamato “job-hopping”, il fenomeno è stato descritto molto bene dal Randstad Workmonitor 2025, che ha analizzato anche la situazione italiana. La ricerca ha dato lo spunto a Mattia Salvi, giovane Ceo di Aryel, per una riflessione sulle migliori strategie di valorizzazione dei giovani, i principali protagonisti del cambiamento in atto, oltre che il nucleo principale dei dipendenti della sua scale-up di display advertising, fondata cinque anni fa.

«Il team di Aryel conta oggi circa 45 persone, con una presenza significativa di giovani under 30», racconta Salvi, che si sofferma sul modello di organizzazione di Aryel basato sulla combinazione di «smart working e presenza in ufficio, per permettere a ciascuno di conciliare al meglio vita personale e professionale».
Un modello come quello sopra descritto sembrerebbe tagliato su misura sulle esigenze dei giovani, continua il Ceo, elencando le nove strategie da loro messe in atto:
1. le idee non hanno seniority: rendere l’età un limite alla partecipazione, significa soffocare nuove idee e punti di vista. Le aziende che considerano solo l’anzianità e l’esperienza perdono l’occasione di innovare. I giovani – in particolare – chiedono ascolto e spazio, non gerarchie rigide;
2. stop al “si è sempre fatto così”: ancorarsi al passato è una delle principali barriere all’innovazione. I contesti lavorativi che non si evolvono generano frustrazione e immobilismo. I talenti desiderano contribuire attivamente al cambiamento, non replicare schemi già scritti;
3. il lavoratore vuole sentirsi coinvolto: delegare il pensiero solo ai livelli dirigenziali è un errore che allontana i talenti più brillanti. I lavoratori vogliono sentirsi parte della strategia, non semplici esecutori. Ed essere coinvolti nelle decisioni aumenta il senso di responsabilità e di appartenenza.
4. chi ha ambizione non cerca scorciatoie: questo è un pregiudizio che spesso maschera una mancanza di progettualità da parte delle aziende. I collaboratori non cercano scorciatoie, ma chiarezza nei percorsi di crescita, possibilità concrete di mettersi alla prova e un riconoscimento coerente con l’impegno;
5. il presentismo in ufficio non può più essere un metro di valore: il presentismo è una pratica superata. Valutare le persone in base alla presenza fisica, invece che ai risultati, trasmette un messaggio di sfiducia e controllo. Le risorse preferiscono modelli fondati sull’autonomia, sulla responsabilità e sulla fiducia reciproca;
6. la meritocrazia non ammette ambiguità: quando i riconoscimenti non sono trasparenti o coerenti con il merito, il clima interno si sgretola facilmente. La percezione di favoritismi e di decisioni legate all’impulsività del datore di lavoro sono uno dei principali motivi per cui i migliori decidono di andarsene;
7. leadership non significa autorità: una leadership che non ascolta o non comunica con chiarezza genera disconnessione e sfiducia. I team oggi chiedono vicinanza, esempio e trasparenza. La figura del capo autoritario lascia spazio a quella del leader capace di valorizzare le persone e rimuovere gli ostacoli;
8. l’errore è parte della crescita: molte aziende parlano di empowerment, ma poi centralizzano ogni decisione. I talenti vogliono essere protagonisti, non solo spettatori. Avere autonomia significa anche poter sbagliare e imparare, all’interno di un contesto che supporta la crescita e non punisce.
9. il feedback deve essere reciproco: il confronto deve essere continuo, onesto e trasversale. I lavoratori chiedono feedback sinceri e costanti, non solo nelle review semestrali. Le aziende devono introdurre pratiche bottom-up che permettono anche ai collaboratori di valutare i propri manager, in un’ottica di miglioramento reciproco;
Secondo il giovane Ceo, insomma, trattenere i talenti richiederebbe «una cultura meritocratica basata su team di eccellenza, responsabilità reale e trasparenza interna». Attenzione, però, avverte ancora Salvi: «La missione di un’azienda non può essere solo uno slogan: deve essere vissuta ogni giorno, in modo concreto e coerente». Diversamente, la distanza tra l’essere e il non essere spingerà le persone a saltare da un’altra parte.
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